Mantenimento del figlio maggiorenne: quanto dura?

Il diritto dei figli a percepire il mantenimento da parte dei genitori trova la sua fonte primaria nell’art. 30 Cost. che, nei primi due commi così dispone:

“È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”.

Tale diritto dei figli, da un lato, e l’obbligo dei genitori, dall’altro, viene ribadito nell’art. 147 c.c., riguardo ai diritti e doveri nascenti dal matrimonio. Tale disposizione normativa prevede che “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315-bis”.

La giurisprudenza ha chiarito che il concetto di “mantenimento” non si limita al semplice sostentamento delle esigenze alimentari dei figli, ma comprende i mezzi necessari alla soddisfazione del diritto allo studio e all’istruzione, nel rispetto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio (Cass.17089/2013).

L’obbligo del genitore è sancito altresì dall’art. 315-bis c.c., che nel prevedere i diritti e doveri del figlio, sia esso nato nel matrimonio o al di fuori, sia esso maggiorenne o minorenne stabilisce al comma 1 che:

“Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”.

La medesima disposizione normativa, all’ultimo comma, stabilisce che:

“Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.

L’obbligazione di mantenimento dei figli è posta, dall’art. 316 bis c.c., a carico dei genitori “in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”. In caso di impossibilità dei genitori, gli ascendenti sono tenuti ad assicurare ai primi i mezzi per far fronte all’obbligazione di mantenimento dei propri figli.

Ma fino a quando perdura l’obbligo di mantenimento del figlio divenuto maggiorenne?

Orientamento consolidato in giurisprudenza è che il diritto al mantenimento del figlio prescinde dall’esercizio della responsabilità genitoriale. Infatti raggiunta la maggiore età i figli, benché non più soggetti ai diritti e poteri di indirizzo educativo dei genitori, mantengono il diritto al loro mantenimento. Ciò perdura fino al momento in cui il genitore provi che i figli siano divenuti economicamente autosufficienti (Cass. 8954/2010; Cass. 24424/2013), o siano stati avviati ad attività lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica (Cass. 12477/2004), o addirittura, in base ad alcune pronunce, abbiano realizzato le loro aspirazioni (Cass. 4765/2002).

La giurisprudenza, dunque, valuta se il figlio abbia l’indipendenza economica o se la mancata indipendenza sia dovuta a colpa o negligenza del figlio stesso.

E’ pur vero che l’obbligo di mantenimento del figlio se, da un lato, non cessa automaticamente al raggiungimento della maggiore età, dall’altro lato, non può comunque perdurare vita natural durante del figlio (Cass. Civ. n. 407/2007, n. 1773/2012, n. 12952/2016).

Sul punto, la Cassazione (sent. 1858/2016), chiamata a pronunciarsi sul dovere del genitore al mantenimento dei figli maggiorenni abbondantemente fuori corso all’università, ha stabilito che tale dovere “cessa ove il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l’autosufficienza economica pure quando il genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita”.

Pertanto, in tal caso, la Corte ha confermato la revoca del contributo di mantenimento dei figli maggiorenni in considerazione del fatto che questi ben avevano avuto dai genitori l’opportunità di frequentare l’Università, ma non ne avevano saputo trarre profitto.

Assegno di mantenimento nella separazione e assegno divorzile: quando è dovuto.

Il giorno dell’unione in matrimonio uno degli articoli letti agli sposi durante la celebrazione del rito (sia esso civile o religioso) è il 143 c.c. che stabilisce i diritti e doveri reciproci dei coniugi tra cui il dovere di assistenza morale e materiale, la collaborazione alle esigenze della famiglia, al sostentamento e crescita dei figli.

Ma cosa accade quando la coppia entra in crisi e giunge ad una separazione legale consensuale o giudiziale?

Quando è dovuto l’assegno di mantenimento o divorzile

È bene chiarire in primo luogo che con la separazione legale la coppia è ancora unita dal rapporto di coniugio che termina solo con il divorzio.

Durante la separazione legale, che può sfociare in un divorzio ma anche in una riconciliazione dei coniugi, vengono sospesi solo alcuni obblighi come quello di fedeltà e convivenza, assistenza morale e collaborazione. Rimane attivo il dovere di assistenza materiale il che implica, per il coniuge privo di un sostentamento in quanto non avente propri redditi oppure con redditi insufficienti per adempiere alle proprie necessità e cui non sia addebitabile la separazione (art 156 c.c.) il diritto di ottenere dall’altro coniuge un mantenimento.

L’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento è connesso all’individuazione del coniuge che risulta più svantaggiato a motivo della separazione, qualora lo stesso non sia in grado di garantire lo stesso tenore di vita di cui godeva in precedenza.

Si badi che l’accertamento dei redditi, va condotto non solo sui redditi propri o direttamente riferibili al coniuge ( es. immobili, auto, barche, ecc.), ma anche in modo indiretto, ovvero riguardo alla “capacità di spesa del coniuge”. Un coniuge che “ufficialmente” non ha entrate (ad es. perché disoccupato) ma ha uscite possibili sono in presenza di determinate entrate o di un reddito, può inconsapevolmente dare prova di avere un reddito adeguato.

In caso di divorzio i criteri che presuppongono la corresponsione dell’assegno sono diversi: ovvero la mancanza di mezzi adeguati e l’impossibilità di procurarseli per uno dei due coniugi (articolo 5, comma 6, della legge 898/70).

In presenza di uno di questi presupposti nella determinazione dell’assegno divorzile si considerano:

  • le condizioni dei coniugi,
  • le ragioni della decisione,
  • il contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio personale o comune durante il matrimonio,
  • i redditi di entrambi i coniugi,
  • la durata del matrimonio.

Tale assegno può essere corrisposto periodicamente, in genere con cadenza mensile, oppure liquidato in un’unica soluzione.

Con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 la Cassazione, Sezione prima Civile, ha segnato una svolta epocale stabilendo che nella determinazione dell’assegno divorzile il giudice dovrà informarsi al “principio di autoresponsabilità” economica di ciascuno degli ex coniugi, riferendosi soltanto alla loro indipendenza o autosufficienza economica, non al “tenore di vita” durante il matrimonio, criterio peraltro non citato dalla legge sul divorzio.

L’autosufficienza può desumersi dal possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, della disponibilità di una casa di abitazione e della capacità e possibilità effettive di lavoro personale.

L’onere di provare la mancanza degli adeguati mezzi o dei motivi oggettivi per poterseli procurare, graverà sulla parte che richiede l’assegno, la quale dovrà dimostrare la circostanza con “tempestive, rituali e pertinenti” allegazioni e deduzioni.

E’ revocabile il fondo patrimoniale costituito da entrambi i coniugi con figli minori

L’istituto del fondo patrimoniale, regolato dagli artt. 167 – 171 cod. civ., così come novellato dalla Riforma del diritto di famiglia L. 19.05.1975 n. 151, consiste nella imposizione convenzionale da parte di uno dei coniugi, di entrambi o di un terzo di un vincolo in forza del quale determinati beni, immobili, mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, come beni destinati a far fronte ai bisogni della famiglia.

Molto spesso la costituzione di tale fondo viene percepita dai creditori personali dei coniugi come un escamotage per sottrarre beni alla garanzia patrimoniale rendendoli, dunque, inaggredibili poiché destinati dai coniugi a fronteggiare i bisogni della famiglia, salvo sussistano le condizioni di cui all’art. 170 c.c.

Ebbene sul punto si è espressa la Suprema Corte con un indirizzo consolidato, ribadito da ultimo nella sentenza 12 dicembre 2014, n. 26223 secondo cui:

La costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra, di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti, suscettibile, pertanto, di revocatoria, a norma dell’art. 64 legge fallimentare, salvo che si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ed il proposito del “solvens” di adempiere unicamente a quel dovere mediante l’atto in questione.

Sarà pertanto il disponente, dunque il debitore, a dover dimostrare che l’unico modo per adempiere al dovere morale era attribuire il bene al fondo patrimoniale o costituire il fondo.

La medesima sentenza ha altresì chiarito che con la costituzione del fondo patrimoniale si determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinché, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, tuttavia tale atto non non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l’insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità. Dunque deve escludersi che i figli minori del debitore siano litisconsorti necessari nel giudizio promosso dal creditore per sentire dichiarare l’inefficacia dell’atto con il quale il primo abbia costituito alcuni beni di sua proprietà in fondo patrimoniale.

Addio alla famiglia patriarcale: Si al cognome della madre ai figli

Con comunicato stampa dell’08.11.2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato di aver accolto la questione di legittimità costituzionale (sollevata dalla Corte di appello di Genova) circa l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori, prevista dall’art. 262 c.c. Continua a leggere

Soluzioni per separazione o divorzio in tempi brevi, quale alternativa scegliere.

Con l’approvazione del D.L. 132/2014, successivamente convertito nella L. 162 del 10 novembre 2014, la coppia che consensualmente vuole separarsi o divorziare non sarà più obbligata a rivolgersi al giudice, ma potrà scegliere scegliere fra tre alternative:

  1. La via “classica”: presentare un ricorso congiunto al Tribunale e ottenere l’omologa della separazione, la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili (unica ipotesi percorribile fino alla succitata riforma);
  2. Avviare una negoziazione assistita da avvocati (art. 6, D.L. 132/2014): consiste in un accordo formalizzato e sottoscritto dai coniugi, ciascuno dei quali rappresentato da un avvocato, direttamente in studio davanti ai rispettivi difensori, senza passaggio dei coniugi in Tribunale. In tal caso, come nell’ipotesi succitata al punto n. 1), è possibile disporre sia il mantenimento a favore di uno dei coniugi, sia dei figli minorenni o maggiorenni economicamente non autosufficienti, nonché eventuali trasferimenti immobiliari.
  3. Concludere un accordo presso l’ufficio dello Stato Civile, in presenza di determinate condizioni (art. 12) e purché non sussistano situazioni che riguardino soggetti deboli da tutelare (ad esempio prole minorenne, maggiorenne non autosufficiente, incapace o con handicap grave).

L’evidente scopo della riforma è di stimolare le parti al raggiungimento di un accordo in merito alle condizioni di separazione personale, cessazione degli effetti civili del matrimonio o scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, senza rivolgersi obbligatoriamente all’autorità giudiziaria, ma affidando il ruolo di negoziatore all’avvocato (ipotesi al punto n. 2) o all’Ufficio Comunale (ipotesi al punto n. 3).

Si ricordi che parallelamente è stato introdotto il c.d. “divorzio breve“, che ha ridotto notevolmente il termine di separazione a sei mesi (in caso di separazione consensuale) e un anno, nel caso di separazione giudiziale.